Ci sono uomini che scrivono.
Ci sono uomini che pensano.
Ci sono uomini che fanno entrambe le cose. Male entrambe, o bene entrambe. Oppure male una e bene l'altra. A chi ne riesce bene solo una è sempre quella, senza intercambiabilità (chè ognuno ha le sue attitudini).
Poi, a parte, ci sono uomini che giocano a calcio. (Che possono benissimo rientrare in una delle due categorie citate in precedenza, ma - per una questione di classificazione - lo scrivo a parte).
Solitamente, la scrittura è una conseguenza del modo di pensare: considerando pero' una cosa - che, anche se sei in grado di pensare bene - c'è la possibilità (assolutamente non remota) che tu riesca a scrivere delle stronzate colossali.
Un po' perchè non sempre riesci a esprimerti in modo decoroso, corretto, lineare. E il discorso rasenta il livello grammaticale di una intervista ad Alberto Tomba. O Bobone Vieri, se va grassa.
Un po' perchè non riesci a concretizzare attraverso le frasi quello che hai pensato e ne viene fuori una roba che non si puo' leggere. Incomprensibile. Idiota. Ridicola. O peggio, pallosa.
C'è un argomento che amo, di quello che scrivono gli uomini che scrivono bene.
E riguarda le Domeniche trascorse a sudare sui campi di calcio, nelle Giovanili - quando ancora i piedi erano buoni e c'era il fisico per correre dietro al pallone, chè facevi tutta la fascia con uno scatto alla Emerson.
Domeniche dove dovevi dare tutto, chè rischiavi la panchina - e questo non era contemplato nel tuo immaginario personale - per orgoglio anche. Era il momento decisivo in cui doveva - perchè doveva - riuscire quel cazzo di schema che avevate provato e riprovato, te e i tuoi compagni. Il momento di prendere coraggio, determinazione, voglia di correre, di calciare preciso - di esterno magari, all'incrocio dei pali.
E concretizzare così tutte le speranze, i lavaggi del mister, gli allenamenti a -4° con la brina che vedevi appena la palla.
Domeniche di rituali, di mal di pancia al momento di entrare in campo, di crampi e cartellini gialli. Di fuorigiochi insesitenti segnalati alla cazzo da guardalinee affetti da miopia avanzata. Di rigori mai dati, nonostante lo stinco del numero 10 aperto in due, dopo la falciata del difensore. Domeniche di punizioni perfette, alla Del Piero (quasi) e di dribbling riusciti con magistrale padronanza del mezzo. Di tifo che esulta sugli spalti, bandiere, cori dalla sud e di soddisfazioni personali.
Domeniche che capita anche che ti buttano fuori. Perchè capita. E questa è grande amarezza.
Mandi a fareinculo doverosamente tutti mentre fai altre due cose in contemporanea: la prima semplice, ovvero prendi filato le scale dello spogliatoio. La seconda più ardua: cerchi di digerire il trinomio cappelletti-brodo-zampone del pranzo che ti da regolarmente un po' da fare allo stomaco.
(Il mister sono anni che dice di stare leggeri a pranzo ma vabbè, lui forse non ha una nonna. L'avesse, cambierebbe raccomandazione, o starebbe zitto, per coerenza).
Amo quando, in queste memorie, trovo le rievocazioni dei nomi-e-cognomi dei compagni di squadra associati a soprannome e rispettivo ruolo - con la descrizione dettagliata di quello che erano soliti fare, delle rispettive prodezze e miserie, sul campo.
Di quello con i piedi buoni, mago della punizione. Di quello che è un mastino e non fa passare nemmeno una mosca. Di quello che ha la freddezza giusta per il rigore. Di quello che si fa sempre buttare fuori, che gli va il sangue al cervello. Di quello bravo a fingere. Di quello piu' diplomatico, motivatore, che ha il senso di squadra e la fascia rossa sul braccio. Di quello che arriva all'allenamento quando gli scatti sono già stati fatti. Di quello buono e quello che non perdona.
C'è un racconto molto carino, di un uomo che, a mio avviso, appartiene alla categoria degli uomini che scrivono bene. E pensano bene. E che ha giocato anche a calcio.
Lo scrittore è Stefano Benni e il racconto è intitolato "Solitudine e Rivoluzione del Terzino Poldo" (tratto dal libro "La Grammatica di Dio").
E e questo è l'incipit:
“Tanti e tanti secoli fa, disse zio Nabucco, giocavo a calcio nel campionato dilettantistico. Molte cose sono cambiate da allora, e quattro in modo assai evidente. E cioè il sottoscritto, il pallone, i campi da gioco e il ruolo del terzino”. Fu Poldo Galilei “a fare la rivoluzione che cambiò il calcio italiano".
Ovunque egli sia, conclude Stefano Benni, "vada a Poldo Galilei, roccioso terzino dolomitico che un giorno osò varcare la linea di centrocampo, la Gloria degli eroi sconosciuti".
(Interessante la descrizione dello zio Nabucco sulla scomparsa del ruolo del terzino nel calcio "di oggi").
“quando l’attaccante non aveva la palla, il terzino guardava il gioco con la tranquillità di una mucca…”
Sono molto più giovane di Benni(che adoro), molto(moltissimo + vecchio di te), giocavo all'ala(negli anni 70) e non ho mai visto terzini che mi marcavano con la tranquillità di una mucca.
RispondiEliminaHo la presunzione di scrivere e pensare in maniera autosufficiente... e ancora oggi gareggio in mutande quasi tutte le domeniche combattendo con i cappelletti-brodo-zampone del sabato sera ...ai quali spesso ho associato anche nettari proibiti.... qualcuno la chiama sindrome di Peter Pan, ma (per me)è l'unico stile di vita plausibile in questo mondo.
In effetti non credo nemmeno io che i terzini abbiano mai guardato il gioco con la tranquillità di una mucca; mi faceva solo molto ridere la frase. L'unico stile di vita plausibile a questo mondo per me corrisponde al massimo che una persona puo' fare, in base alle proprie possibilità/capacità, per arrivare al grado piu' alto possibile di quella che si puo' definire - su per giu'- come felicità. (E la sindrome di Peter Pan credo sia un'ottima soluzione in merito).
RispondiElimina